mercoledì 4 giugno 2008

Morioka, Iwate

Sono stato a Morioka, nella prefettura di Iwate, quasi una settimana. Non ho visto granché. Ero lì per un convegno.
Il campus universitario, inaugurato solo dieci anni fa, è bellissimo e immerso nel verde di una regione dai colori quasi alpini. L'aria è frizzante e profuma di fresco. Mi vengono in mente Trento e l'Aquila, università a cui in fondo si potrebbero gemellare.


Ho visitato gli studi dei professori e i laboratori degli studenti. Ci vivono dentro evidentemente. In questa stanza hanno a portata di mano anche il phon.

Semafori blu

A voi non sembra verde questo semaforo? Forse con una sfumatura leggermente diversa rispetto ai nostri. Ma sempre verde è.

Beh, ho scoperto che i giapponesi per dire che un semaforo è verde dicono che è blu. Relativismo culturale. In fondo noi non chiamiamo "bianco" un vino che in realtà è giallo?

martedì 27 maggio 2008

Il giorno dello Shinkansen



Finalmente l'ho preso. Il mitico treno. Letteralmente "la pallottola". L'antenato di tutti i TGV e tutti i pendolini. Non tutti hanno la forma così aerodinamica, il mio era un po' più normale, sempre comunque molto affusolato.

Certo che quando il biglietto si presenta così ci sono un po' di problemi.


Ho dovuto chiedere a un nativo quale carrozza e quale posto prendere.

A bordo cinque sedili per fila e molto spazio per le gambe. Molto piu' che in Italia, eppure i giapponesi sono mediamente piu' piccoli. Quasi tutti tirano fuori dei vassoietti di cibo già pronto e mangiano tranquillamente con le bacchette. Non si vedono panini. Ogni tanto passa una ragazza col carrello dei dolciumi e del caffè. Arrivata in fondo al vagone si gira, si rivolge ai passeggeri, fa un inchino e prosegue oltre.

Ah, il Giappone!

domenica 25 maggio 2008

L'arrivo in Giappone

Sono qui in albergo a scrivere. Fuori è buio e sono solo le otto di sera, non c'è l'ora legale. Che dire? Ieri, sabato - ma mi sembra ancora oggi - è stata una giornata interminabile.

Sveglia alle sei, in auto all'aeroporto e la fortuna di trovare un parcheggio gratuito. Scalo a Zurigo e poi alle 13 si decolla per Tokyo. Undici ore e mezza fantozziane in una poltroncina strettissima e poi all'arrivo, per il mio fuso orario quasi all'una di notte, ma qui sono le 7.50, una bella fila al controllo passaporti di tre quarti d'ora. Ti scattano una foto e ti prendono anche le impronte digitali, finiremo per copiarlo anche noi.

Domani vado a Morioka, nel nord del paese. Prenderò il famoso pendolino, lo Shinkansen, letteralmente "pallottola". Nel frattempo un giorno di riposo ci vuole, e il mio ospite mi ha prenotato un anonimo e confortevole albergone nei pressi dell'aeroporto. In stanza cortesie tipicamente nipponiche, come il kimono e le pantofoline per i clienti.

Ma prima, ciliegina sulla torta, ho dovuto aspettare nella hall quasi due ore, perché il check-in non era ancora cominciato. Rigidità di questo affascinante paese in cui il rispetto degli orari è sacro.



Nel frattempo mi sono guardato un po' di invitati defluire al matrimonio di Tomokazu e Natsuki (gli sposi non li ho visti però). Giovani vestiti come noi e anziane donne in costumi tradizionali.


venerdì 23 maggio 2008

Giappone


Sto partendo per la terra del Sol Levante. Spero di riuscire a raccontare qualcosa da lì

mercoledì 9 aprile 2008

Eataly: il paese dei balocchi



La storia di Eataly è nota ai più, e non starò qui a rifarla. Quel plastico (non ho trovato una foto altrettanto bella da quell'angolazione) adesso è realtà. E chi entra lì dentro, entra in un paese dei balocchi, dove trova praticamente tutta la produzione d'eccellenza, italiana e non solo.

Inutile fare lunghissime liste ed elenchi, tanto c'è il sito per questo (clicca qui), e si può anche ordinare on-line.
Ma vale la pena dire che camminare in questo ipermercato del gusto è un'esperienza sensoriale interessante: tranquillizzanti i colori pastello di certe distese interminabili di paste artigianali, allegra la policromia dei frutti e delle verdure, vivace il rosso acceso delle carni della Granda.

Da tanto desideravo tornare a Torino e l'occasione si è presentata nelle vesti di una straordinaria serata dedicata al fritto misto piemontese, ospitata proprio da Eataly e sotto gli auspici della condotta locale di Slow Food (l'unica tessera che ho in tasca :-) ). E' passato un po' di tempo dal 5 febbraio - allora non avevo ancora aperto questo blog - e, a poco a poco, sto recuperando gli eventi gastronomici più significativi di questi ultimi mesi.
"Il Risorgimento del Fritto", proponeva la locandina, alludendo anche al nome del ristorante che ha curato la serata: il Risorgimento di Treiso (CN).
Sono arrivato al Lingotto già nel pomeriggio e ho visitato la mostra - pardon lo store - insieme al grande Leo aka JPSullivan, un cugino cresciuto (bene!) sotto la Mole. Tante passioni ci uniscono, irrilevanti inezie calcistiche ci dividono.

Le madamine arrivano dalle Langhe già nel primo pomeriggio e si mettono al lavoro. Ci sono da preparare 21 fritti differenti per una sessantina di persone. Non è uno scherzo, ma l'organizzazione appare molto rodata.


Le ventuno preparazioni verranno servite in sette portate da tre ciascuna (c'è qualcosa di cabalistico in questo 3 per 7). Ad aprire e chiudere un'insalata russa e una torta di pere e cioccolato.
Ci accomodiamo a questa bella tavola in un'atmosfera di eleganza metropolitana che contrasta in modo interessante con la rusticità dei piatti.



La scenografia è merito di una ragazza in gamba di cui non ricordo il nome, e che è il braccio destro di Farinetti nell'organizzazione di eventi.
E questi sono i fritti che ci siamo mangiati:

Bistecca di maiale, carote, cervella
Bistecca di agnello, cavolfiore, granelle
Batsuà, filoni, finocchio
Fegato, salsiccia, lacet
Frise, cipolla ripiena, rane
Melanzana, boscaiolo, bistecca di coniglio
Semolino, amaretto, mele

Interiora e parti meno nobili sono il grande atout del fritto misto piemontese: non che la cipolla ripiena o le carni fossero da meno, ma certi sfizi come le frise (impasto di fegato, carne, cuore, ginepro, pepe), la batsuà (zampini di maiale) o le granelle (cioè i testicoli del toro (mancavano le zebre)) sono chicche per cui valeva la pena il viaggio.
E poi è sempre un piacere passare una serata con Leo e Margherita. Ritrovando poi Federico, cinefilo desaparecido.

mercoledì 2 aprile 2008

Una dedica di Aldo Fabrizi

Conoscendo la mia passione per la cucina, l'amico Pierfilippo mi regala alcuni libri che erano del padre, e tra questi uno di ricette di Aldo Fabrizi: "La Pastasciutta".


Ar Tonno, all'Arabbiata, a la Ciociara,
a la Cinese, a la Festivaliera,

al Latte, ar Gorgonzola, a la Groviera,

ar Pesto, ar Tettattè, a la Carbonara,


[...]

e in antri mille modi e a tutte l'ora ...
che puro si 'sto monno s'è inquinato ...

vale la pena de soffricce ancora!


Tanti sonetti così, per raccontare la pasta e il modo di cucinarla, ma soprattutto per celebrare un amore, anzi una droga.

C'è un trucco p'ogni specie de drogato,
presempio a un cocainomane, je danno

'na "pizzicata" de bicarbonato.


Ma ar caso mio, mannaggia li pescetti,

che so' Pastasciuttomane, che fanno?

Me fanno 'n'ignizione de spaghetti?


Io pastasciuttomane non sarò - almeno non ancora - ma trovo difficile resistere alla tentazione di eseguire qualche ricetta. Magari gli "zitoni alla papalina", in cui gli zitoni vengono riempiti uno per uno con pisellini e poi infornati in una teglia a strati con besciamella e parmigiano.

Il padre del mio amico era un grande regista televisivo, non mi stupisce quindi che abbia conosciuto il mitico Aldo e non mi stupisce trovare una dedica autografa del grande attore su questa copia del volume. Diciamo che razionalmente non mi sorprende, ma mi emoziona tantissimo. Arriva dal passato, da un Capodanno 1974, "un treno di auguri valevoli fino ar 2000 e ortre"


Ah, il libro non è più in stampa, volendo qualche copia su eBay si può trovare.
La dedica dell'autore però non ha prezzo (per tutto il resto c'è Mastercard).

mercoledì 19 marzo 2008

Châteauneuf du Pape

Châteauneuf se ne sta a due passi da Avignone e non lontana da luoghi petrarcheschi come la fontana di "Chiare fresche e dolci acque".
Quando il Papa era confinato li', vi fece piantare delle vigne e costruire un castello. Castello che ora è in rovina, mentre il vino gode nuovamente di meritata fama dopo un breve periodo di oblio.

A Châteauneuf sono stato la prima volta nel 1999, e poi più volte. E' un bel paesino della Provenza, ma, a parte le rovine del castello, non sembra, a prima vista, possedere tante attrattive. Il segreto del suo successo, come al solito, è nel sottosuolo (gli esperti si potranno godere la cartina qui in basso) e nel microclima.



Il Mistral infatti soffia centotrenta giorni all'anno, asciugando gli acini dalle piogge, mentre il terreno ciottoloso preserva il calore del sole.

Negli uvaggi predomina la grenache (che alcuni produttori vinificano in purezza), ma sono 13 i vitigni ammessi. Oltre questa: syrah, mourvèdre, cinsault, vaccarèse, counoise, muscardin, picpoul, terret noir, roussanne, clairette, bourboulenc e picardan.

Un ottimo sito, che riporta moltissimi produttori della zona è questo.

Prossimamente parlerò di Ancien Domaine des Pontifes e del Domaine Raymonde Usseglio, due produttori poco noti (soprattutto il primo) e dall'ottimo rapporto qualità/prezzo.

In questo post vorrei raccontare di una recente degustazione che mi ha permesso di ritrovare vecchie glorie e scoprire domaines che non conoscevo.

Domaine de la Mordorée 1999
Al naso amarena sotto spirito, non troppo complesso, tutto sommato ordinario, senza grandi slanci. In bocca corposo e tannico senza particolare eleganza. Potente ma non imponente.

Château de Beaucastel 1999
La classe non è acqua. Non a caso, questa è una delle etichette piu' blasonate. Il naso è etereo e speziato con note di frutti di bosco ed echi di sottobosco. In bocca la mora matura si evidenzia con chiarezza. Bel corpo e tannini eleganti.

Domaine de Marcoux Vielle Vignes 2000
La sorpresa della serata. Ringrazio chi mi ha presentato questo energico giovanotto, ancora con molti anni davanti ma già piacevolissimo. Naso etereo e speziato in cui predomina la ciliegia sotto spirito e si sentono echi di lavanda. In bocca estrema eleganza e finezza. Molto lungo.

Château Rayas 2003
Un mito. Anche così giovane ha modo di esprimere la classe e il fascino per cui è giustamente famoso. Il naso è suadente, complesso, etereo e minerale. Note di lamponi, spezie (noce moscata soprattutto) e incenso. Un naso quasi borgognone. In bocca tornano finissime le note speziate, accompagnate da una splendida mineralità e sapidità. Lunghissimo e affascinante.

Château du Mourre du Tendre 2003
Altro produttore non molto noto (dubito abbia un importatore italiano) ma proprio bravo a tirar fuori dal terroir tutte le potenzialità aromatiche di questo fino. Il naso infatti è molto intrigante, con note dolci (alchermes, cassis ... sembra quasi di sentire una zuppa inglese), spezie dolci e un'eco lontana di funghi selvatici. In bocca un po' esile, ma finissimo ed elegante.

sabato 15 marzo 2008

Il perfezionista

Una sera di ottobre del 1995 un uomo celebre, un uomo di potere, amante dei piaceri della tavola e del vino, bussava alla porta della Cote d'Or. Lo sguardo triste e un po’ spento. Magro, ma non in forma. Quell’uomo era lì per assaggiare un’ultima volta la cucina di uno dei suoi chef preferiti. Non sarebbe piu’ tornato in quel ristorante. Stava gia’ lasciando questa terra.Quell’uomo si chiamava François Mitterrand e il suo cuoco, quella sera, era Bernard Loiseau. In una nazione in cui gli chef sono portati in palmo di mano, acclamati o criticati come da noi gli allenatori di calcio, in una nazione che si appassiona alla classifica dei ristoranti stellati e si accalora nel discuterne come noi in un bar sport a parlare di pallone, in una nazione in cui il sito ufficiale del governo - del governo! - riporta i principi della nouvelle cuisine, in una nazione fatta così, quella che secondo De Gaulle non si poteva governare perche’ ci sono 400 varieta’ di formaggi, in questa nazione insomma, e’ del tutto normale che il Presidente sia un gourmet. E che una bella cena possa essere uno dei suoi ultimi desideri.

Mi piace immaginare che quella notte Saulieu, un borgo niente affatto pittoresco della Borgogna, fosse immersa nelle brume dell’autunno inoltrato. Non c’era mai un bel clima in quella stagione, i clienti scarseggiavano e anche un auvergnat come Bernard Loiseau poteva deprimersi a lungo andare, in attesa di un’estate che durava sempre troppo poco. Era aperto mattina e sera, sette giorni su sette, il suo ristorante: un indirizzo glorioso che aveva conosciuto la fama e la gloria delle tre stelle e che lui, con il suo maniacale lavoro, con la sua propensione "mediatique", con il genio ed il sudore, era riuscito a riportare da zero a tre stelle.

Ma Loiseau non dormiva sugli allori. Nessuno dovrebbe: le stelle si guadagnano e si perdono. E poi a lui non bastava essere al top. Voleva essere il top, il primo, il piu’ grande.

Rudolph Chelminski, un giornalista americano che vive a Parigi da piu’ di trent’anni, ha dedicato un libro alla storia di Loiseau. Una storia che finisce tragicamente. Con un suicidio. Un suicidio inconcepibile probabilmente per tanti telespettatori francesi - la TV ne parlo’ per giorni nel febbraio del 2003, mentre impreversava la crisi tra Stati Uniti e Iraq che sarebbe sfociata nella guerra - ma che leggendo il libro appare quasi l’inevitabile conseguenza della follia del cuoco che voleva essere il numero uno. "Il perfezionista", cosi’ si intitola il bellissimo saggio di Chelminski, è la storia di un’ossessione, della ricerca della perfezione, della maniacale cura dei particolari, dell’invincibile impulso a controllare e a dirigere tutto, come uno chef d’orchestre, un direttore d’orchestra che vorrebbe dirigere anche il suo pubblico.

Sfilano tanti testimoni nel libro. Uno di questi parla di "musica in bocca" e ricorda bene Loiseau rimproverare un cliente amico perche’ stava parlando troppo ("Mangia!" gli disse). Tutto doveva essere "tre stelle", alla Cote d’Or, anche il pavimento e i rubinetti in bagno. Ma quella che per tanti professionisti e’ una costante e inesauribile ricerca dell’eccellenza, per Loiseau, probabilmente affetto da depressione bipolare, era fonte di angoscia e di tormento. La paura di non farcela, di non riuscire a diventare il numero uno al mondo. E cosi’, una retrocessione nel punteggio della Gault Millau fu la classica goccia che fece traboccare il vaso e lo porto’ al tragico gesto. Non si creda pero’ che la lettura del libro sia angosciante, anche se non si puo’ non provare simpatia, proprio nel senso etimologico del termine, e quindi non si puo’ non soffrire per questo straordinario personaggio, questo giovanottone dal sorriso contagioso che ha mandato in estasi legioni di gourmet di tutto il mondo. Sette giorni su sette. Mattina e sera. 364 giorni su 365.

Chelminsky non si e’ limitato pero’ a farne la biografia. Ha fatto di piu’. Ha delineato una storia dell’alta ristorazione francese a partire dalla mitica Pyramide a Vienne di Fernand Point: il maestro di Bocuse e dei fratelli Jean e Pierre Troisgros. Fu da loro, a Roanne, che Loiseau fece la sua gavetta, cominciando, come nei romanzi americani - ma quelli a lieto fine - dalle incombenze piu’ umili (e si era in tempi di cucine a carbone, e le si doveva pulire tutti i giorni). Nelle pagine del giornalista americano, sfila una Francia rurale e proto-industriale che non c’è piu’. Una Francia ancora senza autostrade. Una Francia di commessi viaggiatori che potevano mangiare alla "table d’hote", ovvero a menu fisso, agli stessi grandi ristoranti tri-stellati. Una Francia che non aveva ancora demonizzato il colesterolo. Burro, burro e burro, "datemi ancora del burro!", gridava sempre il monumentale Fernand Point, immenso e piramidale come nella famosa immagine immortalata da Robert Doisneau.

Chissa’ se quella sera Mitterrand, mangiando per l’ultima volta alla Cote d’Or, ripensava a un altro dei suoi piatti preferiti. Chelminski ce lo racconta e ce lo fa sognare: e’ la poularde Alexandre Dumain, un monumento della gastronomia francese. Si prendeva una pollastra (naturalmente di Bresse) e la si poneva su un treppiede all’interno di una grossa pentola di coccio. La pollastra cuoceva a vapore, ma che vapore! Il vapore prodotto dal sobollire di tre fondi di cottura (diluiti): pollo, ossa di pollo e vitello. A parte, sempre nel coccio, evaporavano in un contenitore: cognac, porto ed essenza di tartufo. Senza contare che la pollastra stessa era ripiena di verdure, tartufi e foie gras e foderata di tartufi tra la pelle e la carne. Un panno copriva la pentola e imprigionava gli aromi, che esplodevano infine nel naso di clienti, e in tutta la sala! Si puo’ afferrare il vapore? Si puo’ trasformare il vapore in gioia e godimento? Se ci emozioniamo al cinema guardando delle ombre, possiamo emozionarci a tavola per aromi e profumi. E’ un’estasi molto terrena, materiale e immateriale allo stesso tempo. Sublime nel vero senso della parola. Questo e’ il senso della grande cucina, di un grande ristorante e di un grande interprete. Il merito del libro di Chelminski e’ di farci afferrare in pieno questo senso, di stuzzicare le nostre papille gustative e cerebrali, accompagnandoci in un viaggio affascinante tra le stelle della gastronomia.

venerdì 14 marzo 2008

Liste indigeste

un redattore (sicuramente un sabotatore comunista) ha inserito proprio questa pubblicita' nelle due pagine de "Il Giornale" in cui vengono presentate le liste del PDL