Mi piace immaginare che quella notte Saulieu, un borgo niente affatto pittoresco della Borgogna, fosse immersa nelle brume dell’autunno inoltrato. Non c’era mai un bel clima in quella stagione, i clienti scarseggiavano e anche un auvergnat come Bernard Loiseau poteva deprimersi a lungo andare, in attesa di un’estate che durava sempre troppo poco. Era aperto mattina e sera, sette giorni su sette, il suo ristorante: un indirizzo glorioso che aveva conosciuto la fama e la gloria delle tre stelle e che lui, con il suo maniacale lavoro, con la sua propensione "mediatique", con il genio ed il sudore, era riuscito a riportare da zero a tre stelle.
Ma Loiseau non dormiva sugli allori. Nessuno dovrebbe: le stelle si guadagnano e si perdono. E poi a lui non bastava essere al top. Voleva essere il top, il primo, il piu’ grande.
Rudolph Chelminski, un giornalista americano che vive a Parigi da piu’ di trent’anni, ha dedicato un libro alla storia di Loiseau. Una storia che finisce tragicamente. Con un suicidio. Un suicidio inconcepibile probabilmente per tanti telespettatori francesi - la TV ne parlo’ per giorni nel febbraio del 2003, mentre impreversava la crisi tra Stati Uniti e Iraq che sarebbe sfociata nella guerra - ma che leggendo il libro appare quasi l’inevitabile conseguenza della follia del cuoco che voleva essere il numero uno. "Il perfezionista", cosi’ si intitola il bellissimo saggio di Chelminski, è la storia di un’ossessione, della ricerca della perfezione, della maniacale cura dei particolari, dell’invincibile impulso a controllare e a dirigere tutto, come uno chef d’orchestre, un direttore d’orchestra che vorrebbe dirigere anche il suo pubblico.
Sfilano tanti testimoni nel libro. Uno di questi parla di "musica in bocca" e ricorda bene Loiseau rimproverare un cliente amico perche’ stava parlando troppo ("Mangia!" gli disse). Tutto doveva essere "tre stelle", alla Cote d’Or, anche il pavimento e i rubinetti in bagno. Ma quella che per tanti professionisti e’ una costante e inesauribile ricerca dell’eccellenza, per Loiseau, probabilmente affetto da depressione bipolare, era fonte di angoscia e di tormento. La paura di non farcela, di non riuscire a diventare il numero uno al mondo. E cosi’, una retrocessione nel punteggio della Gault Millau fu la classica goccia che fece traboccare il vaso e lo porto’ al tragico gesto. Non si creda pero’ che la lettura del libro sia angosciante, anche se non si puo’ non provare simpatia, proprio nel senso etimologico del termine, e quindi non si puo’ non soffrire per questo straordinario personaggio, questo giovanottone dal sorriso contagioso che ha mandato in estasi legioni di gourmet di tutto il mondo. Sette giorni su sette. Mattina e sera. 364 giorni su 365.
Chelminsky non si e’ limitato pero’ a farne la biografia. Ha fatto di piu’. Ha delineato una storia dell’alta ristorazione francese a partire dalla mitica Pyramide a Vienne di Fernand Point: il maestro di Bocuse e dei fratelli Jean e Pierre Troisgros. Fu da loro, a Roanne, che Loiseau fece la sua gavetta, cominciando, come nei romanzi americani - ma quelli a lieto fine - dalle incombenze piu’ umili (e si era in tempi di cucine a carbone, e le si doveva pulire tutti i giorni). Nelle pagine del giornalista americano, sfila una Francia rurale e proto-industriale che non c’è piu’. Una Francia ancora senza autostrade. Una Francia di commessi viaggiatori che potevano mangiare alla "table d’hote", ovvero a menu fisso, agli stessi grandi ristoranti tri-stellati. Una Francia che non aveva ancora demonizzato il colesterolo. Burro, burro e burro, "datemi ancora del burro!", gridava sempre il monumentale Fernand Point, immenso e piramidale come nella famosa immagine immortalata da Robert Doisneau.
Chissa’ se quella sera Mitterrand, mangiando per l’ultima volta alla Cote d’Or, ripensava a un altro dei suoi piatti preferiti. Chelminski ce lo racconta e ce lo fa sognare: e’ la poularde Alexandre Dumain, un monumento della gastronomia francese. Si prendeva una pollastra (naturalmente di Bresse) e la si poneva su un treppiede all’interno di una grossa pentola di coccio. La pollastra cuoceva a vapore, ma che vapore! Il vapore prodotto dal sobollire di tre fondi di cottura (diluiti): pollo, ossa di pollo e vitello. A parte, sempre nel coccio, evaporavano in un contenitore: cognac, porto ed essenza di tartufo. Senza contare che la pollastra stessa era ripiena di verdure, tartufi e foie gras e foderata di tartufi tra la pelle e la carne. Un panno copriva la pentola e imprigionava gli aromi, che esplodevano infine nel naso di clienti, e in tutta la sala! Si puo’ afferrare il vapore? Si puo’ trasformare il vapore in gioia e godimento? Se ci emozioniamo al cinema guardando delle ombre, possiamo emozionarci a tavola per aromi e profumi. E’ un’estasi molto terrena, materiale e immateriale allo stesso tempo. Sublime nel vero senso della parola. Questo e’ il senso della grande cucina, di un grande ristorante e di un grande interprete. Il merito del libro di Chelminski e’ di farci afferrare in pieno questo senso, di stuzzicare le nostre papille gustative e cerebrali, accompagnandoci in un viaggio affascinante tra le stelle della gastronomia.
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